Ipazia, tra simboli e gabbie di Serenella Bischi
Nella sua introduzione al Libro di Ipazia, scritto alla fine degli anni '70, Mario Luzi, illustrando al lettore la strana genesi e le motivazioni del dramma, si interroga sulla potenza dei nomi: "Nomi numinosi, che lasciano passare una quantità di vita che oltrepassa le persone che li incarnano e li fecero ricordare", "nomi-mantra che emettono messaggi ed avvisi, nomi nei quali è compresa una forza di significazione che attende il suo momento per manifestarsi (..). Dietro di essi si aprono gorghi di incandescenza o di vuoto e la mente viaggia in un universo dai confini incerti bordeggiando un arcipelago brulicante di grumi che non si sa più se sono relitti di esperienze perdute o embrioni di esperienze da fare ( ) Quasi a conferma che la focalità non è in un episodio, sia pure molto forte, ma, come dire?, in una sorgente che sintonizzata continua a emettere pulsazioni." L'impressione
primaria, forte, che scaturisce dall'impatto in primo luogo con l'argomento
stesso Ipazia, in secondo luogo con il
testo di Adriano Petta e Antonino Colavito, è esattamente quella
dell'incontro con una di queste "condensazioni di esperienza",
una di quelle fonti di emissione continua che maggiormente sono in grado
di dirci qualcosa di determinante su noi stessi e sulla nostra storia.
Tra questi,
nel 1800, il poeta Leconte de Lisle, radicale avversario del cristianesimo
e adepto dell'estetica parnassiana, volta al paganesimo come religione
della bellezza e della sapienza, Charles Kingsley, sacerdote anglicano
che la fece protagonista di una sua novella; il cattolico francese Charles
Péguy, che, agli inizi del 1900, la elogia per essere "rimasta
in armonia così perfetta [...] sino alla morte e durante la morte
[...] mentre il mondo intero crollava, frantumandosi per tutta la vita
temporale dell'universo e forse per l'eternità", e inoltre
Chateaubriand, Voltaire, Proust, Fielding, Diderot, Leopardi, Monti,
Pascal, Luzi, Calvino e altri. Ma Ipazia non è divenuta mai
un personaggio noto, accessibile a tutti, familiare alla coscienza contemporanea.
Non c'è da stupirsi: è stata cancellata dal palcoscenico
della vita e della storia con una tale feroce e accanita determinazione,
che di lei non è rimasta quasi traccia negli annali ufficiali della
scienza, della filosofia, della storia tout court. Per questo, farla rivivere
è ogni volta un atto di giustizia e di amore. Il libro
di Petta e Colavito, pur narrando uno degli episodi più infami
del martirio della persona, dell'intelletto e della libertà, è
in grado di offrire ad ogni lettore la visuale di due autori che non si
arrendono alla storia, ai fatti come si sono svolti, ma, attraverso gli
occhi innocenti e "vergini" dei protagonisti che li hanno vissuti
in prima persona, rivivono gli avvenimenti con il loro stesso senso di
stupore, di sgomento e di "scandalo", con la stessa indomita
passione e indistruttibile fede nel futuro. Da questo emerge, al di là
dell'atroce realtà dei fatti narrati, la volontà di riallacciare
quel filo che collega il passato al presente e al futuro (filo addirittura
esplicitato negli intermezzi lirico-filosofici affidati alla voce di Ipazia
attraverso la penna di Antonino Colavito), che attualizza tutto il senso
della vicenda e la cui comprensione ha il potere di cambiare le cose.
Si compie così un lavoro prezioso: quello di rimettere sul tappeto
questioni che a molti osservatori "più che distratti"
rischiano di apparire superate. Non lo sono affatto. Una di queste è
ciò che con termine vago si definisce "questione femminile"
e che in questo caso mi sembra di poter meglio definire come "costruzione
storica di un'identità di genere": a noi donne in particolare,
Ipazia parla del sistematico stupro della nostra identità perpetrato
nella storia. Ci parla
della nostra rabbia (e la parola "rabbia" non basta affatto,
è insufficiente a portare sulle sue spalle il peso esplosivo di
questo sentimento), quella rabbia che abbiamo sempre sperimentato sulla
nostra pelle per l'ingiustizia e l'idiozia di un mondo che non ha mai
dato per scontata la nostra qualità di soggetti, di esseri portatori
di individualità. Ci parla della nostra storia di rimozione e di
adattamento per la sopravvivenza. Operazione in cui siamo state incredibilmente
e "amorevolmente" sostenute e facilitate da tutte le autorevoli
voci di una cultura strutturata secondo le esigenze di una visione e di
un potere maschili. Tra queste voci, per l'appunto, quelle di quasi tutta
la letteratura e le istituzioni religiose di ogni epoca e di ogni parte
del mondo, che ci hanno sempre voluto spiegare chi siamo, cosa siamo e
come dobbiamo essere. Tra queste voci, il coro assordante di ultrasuoni
- e non - che ancora ci bombarda, quotidianamente, da tutto l'apparato
mediatico della nostra società, nutrendoci costantemente di un'imagerie
che è chiara indicazione di identità e di ruolo, al di fuori
dei quali non esiste per noi individualità, non c'è esistenza
(non ci sentiremmo forse perdute, senza che ci venisse quotidianamente
ricordato attraverso la pubblicità, i media o i dettami di varie
morali pseudo-religiose, pseudo-psicologiche, scientifiche o sociali,
che siamo "tette e culo" oppure "burqua", che siamo
madri, fidanzate, "donne-manager", mogli, prostitute, regine
del focolare
e via dicendo. In fondo c'è sempre bisogno di
una definizione per noi: siamo ancora e solo oggetti, le streghe da mettere
in copertina o da bruciare sul rogo). Questo libro
ci parla anche, quindi, della storia del genere femminile, una storia
che ha visto le donne costantemente e inammissibilmente costrette a porre
sul tappeto la questione "persona". Il più radicato e comunemente accettato degli stereotipi trasmessici da questa cultura è che noi donne, si sa, non abbiamo poi una grande capacità di raziocinio, essendo "per natura" più dotate in altri campi, essendo più che altro "cuore e sentimenti" (grande, innata, materna capacità di accoglienza ). Cultura che, specularmente, sul versante del maschio, ha privato gli uomini di una riappropriazione di identità, depredandoli, con scarse possibilità di appello, di tutte le qualità tradizionalmente definite "femminili". Il misconosciuto ruolo dell'universo femminile nella costruzione dell'"impianto tessile del pensiero" è ciò che la scrittrice Francesca Rigotti (nel suo saggio Il filo del pensiero) definisce "il paradosso di Arianna": nonostante sia una donna che mette in mano a Teseo il filo per uscire dal labirinto, alle donne è stata rifiutata per millenni la prerogativa del pensiero logico. Si è detto: le donne ragionano col cuore, con l'utero; certo non col cervello. Per restare nel campo di Ipazia, se si pensa che di circa 450 Nobel scientifici, solamente 12 sono stati attribuiti a donne, si constata prima di tutto un dato di fatto ben noto: non sono mai state molte le donne dedite alla scienza. Ma, se andiamo ad indagare tra tutte le possibili ragioni di questo fenomeno, allora sarà il caso di non omettere, tra gli innumerevoli giudizi di questo tipo, quello estremamente emblematico di Gino Loria, studioso di storia della matematica, che meno di cent'anni fa scriveva : "Donne dotte e artiste sono prodotti di degenerazione. Soltanto in forza di variazioni patologiche la donna può acquistare qualità diverse da quelle che la rendono amante e madre. Bisogna dunque aspettarsi che nelle donne d'ingegno esistano ancora altre deviazioni (travestitismo, salute cagionevole, ecc."e ancora: "Si direbbe che la donna, negli studi più ardui, mai cessi di essere scolara; che la larva possa bensì raggiungere lo stato di crisalide, ma le siano vietati i liberi voli della farfalla." Anche i sacerdoti delle nostre scienze hanno voluto sempre spiegarci "chi siamo" e come dobbiamo essere "per essere davvero noi stesse". Una cultura e un pensiero fortemente esclusivi nei confronti delle donne: ogni elemento anomalo rispetto al modello prestabilito non serve a rivedere e mettere in discussione il modello, ma a negare il soggetto che non corrisponde al modello stesso. Un procedimento molto poco scientifico! Ad esempio, così si esprimeva il matematico tedesco Hermann Weyl (1885-1955) su due delle sue pochissime colleghe che erano riuscite a far entrare il loro nome negli annali della matematica: "Solo due donne matematiche nella storia: Sofja Kovalevskaja ed Emmy Noether: la prima non era una matematica, la seconda non era una donna". E, se poi
andiamo ad indagare bene, vediamo che non sono state poi così poche
le donne che si sono occupate di scienza, di filosofia, di matematica,
di arte, in tempi in cui era obbiettivamente molto più arduo per
una donna riuscire a dedicarsi a queste cose (pensiamo, ad esempio, ad
Artemisia Gentileschi, anche lei per secoli snobbata dalla storia
ufficiale dell'arte e riscoperta solo recentemente). Nomi, quindi, ce
ne sono, e tanti, che non staremo ad elencare. Quello che ci preme osservare
è quanto pesi, in termini di "pseudo-identità di genere",
questa cultura dell'esclusione, quasi entrata nel nostro DNA. Di che cos'altro
ci parla questo, se non ancora di esclusione, di un aut aut percepito
come ineludibile? O la carne o lo Spirito, o la fede o la scienza, o la
donna o l'uomo, e così via
. L'attento e appassionato lettore
di Ipazia sentirà inequivocabilmente che questo libro "partigiano"
- il cui unico difetto è forse quello di dipingerci un po' troppo
in bianco e nero un paganesimo idilliaco e una cristianità feroce
- è scritto proprio contro lo "spirito di parte" che
acceca ragione ed intelletto nel tentativo di imporre verità necessariamente
parziali in veste di incontestabili dogmi. Del resto, se letto con spirito
di parte, il libro stesso rischierebbe di rimettere sul tappeto la questione
in termini di inconciliabile conflitto tra Scienza e Religione. Quel
conflitto che invece gli autori, attraverso il testimonial Ipazia, mirano
a scardinare e a negare in toto. Direi che
il quadro risultante dal racconto di Petta e Colavito è proprio
l'incapacità umana di cogliere la totalità attraverso i
sensi, il cuore e la mente, il perpetuarsi di quella scissione che divide
il mondo in "vero" e "falso", inconciliabili opposti.
Il tragico episodio del martirio dell'intelletto e della libertà
di pensiero e di ricerca, situato in un tratto di storia estremamente
emblematico in questo senso, è episodio significativo e drammatico
di quell'ininterrotto ciclo che vede l'umanità periodicamente impegnata
nell'ottusa distruzione di ciò che è stato "prima di
ora", prima che una nuova "verità" ideologica o
religiosa o un nuovo assetto sociale prendessero il posto della vecchia
verità o del vecchio status. In una visone in cui il concetto di
integrazione, assieme a quelli di libertà e responsabilità
(e, aggiungerei, di amore) sembrano non avere alcun diritto di cittadinanza.
4- 03- 05
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